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Disamistade - di Leonardo Onida

Nessun artista, autentico e orientato all’assoluto, tende a parlare delle sue opere; tantomeno quando esse rappresentano lo zenit della sua Poetica.
Verrebbe da rispondere allora che tutto ciò è ovvio se si tiene saldo quel principio per cui è sempre l’opera che parla, disseminando nuclei di senso e germogli di significato che l’artista consegna inevitabilmente al suo “prossimo” (pubblico, critici o Alter Ego..)
Questo però non sempre accade; non sempre l’arte contemporanea comunica.
Meraviglioso è dunque lo stupore quando ci si trova investiti da un’onda d’urto.
Luca Noce è un poeta del Sogetto, un artista che non stratifica il suo lavoro in ricercatezza tecnica, superficie e senso, ma rimuove i bordi, facendo sorgere dalla Terra le sue creature, lasciandole ad essa ancorate, ma libere di tendere al Cielo.
Creature che appaiono protagoniste del nietzschiano Eterno ritorno, caratterizzate da una fluidità che non tollera impedimenti o terminazioni, nemmeno corporee.
Per questo, forse, mani e piedi non vengono rappresentate distintamente, quasi fossero elementi d’interruzione di una circolarità armonica.
Questo nuovo lavoro dell’artista sassarese, Disamistade II, frutto di una chiara ed inequivocabile ispirazione autentica, rappresenta infatti una continuazione.
Ad una valutazione immediata è la continuazione del suo primo “racconto cromatico” Disamistade I, ma realmente è il perpetuarsi della cifra caratteristica del suo Essere Artista: il non soffermarsi sulle risposte ma usare l’arte per interrogare il passato scavando nella storia dell’umanità.
La dimora del suo lavoro è la Domanda.
Quello di Luca Noce non è un percorso artistico, ma una palingenesi concettuale.
In questo suo nuovo lavoro si respira l’Origine, il passato costitutivo del DNA di un popolo, di una terra, di una cultura che ci appartengono intimamente.
Il colore che le opere restituiscono quando le si interroga è quello dell’arte originaria, quella dell’uomo al suo inizio.
La pittura delle caverne, quella della semplicità che dalle mani di Luca Noce, passa al legno (materiale prediletto dall’artista sassarese), divenendo complessità, priva di complicazione e sofisticazioni.
Pittura, poetica del tratto, origine del Soggetto e semplicità che diventano universalità.
Questa della continuazione è una dimensione di circolarità, di buio che nel suo muoversi lascia spazio alla luce per poi ritornare al cospetto dell’oscurità; Tra Terra e Cielo, dove un simbolo di sottomissione al “balente” rivela la necessità di una denuncia senza intaccarne la dignità.
Nelle infinite possibilità umane, anche in una terra di isolamenti, si può essere Vedova Sarda o semplicemente colpevole di essere una donna viva, L’infedele, la sottomissione, l’infibulazione alle cui spalle può aprirsi l’abisso.
Una croce che non è salvezza (nonostante l’iconografia cristiana possa sembrar citata), ma uno squarcio perpendicolare sullo sfondo di un mondo “involuto”.
Nell’evoluzione concettuale si passa ancora una volta al buio, alla citazione simbolica della morte, di colei che "porta la dolce morte", L’Agabbadora, solitaria, inquietante, che è donna, angelo alato e demone, necessaria alla comunità, evitata quanto rispettata. Archetipo dell’eutanasia.
In questa dimensione pittorica, il confine del Giusto coincidente con la luce e del Male inteso come oscurità sono un nonsense.
La Linea di Confine ha in sé il baratro e la salvezza; icona dell’umano sospesa tra la scelta di un passaggio, di un superamento e la consapevolezza di averlo forse già compiuto.
Maria Maddalena: il figlio dell’uomo, figlio (forse) dell’inizio di un nuovo tempo.
Anche questo è un confine, di cui il filo spinato è metafora esistenziale. È un confine che ciascuno di noi dovrebbe oltrepassare, senza pregiudizi, ponendosi, su questo mistero, le stesse domande a cui l’opera rimanda.    
Luca Noce è un artista alla ricerca della Luce, non biblica, ma originaria.
La Luce che dimora assieme al Caos, che di questo è espressione e vitalità.
Luca, Noce, Luce.